mercoledì 13 gennaio 2016

FINISTERRE di Orazio Caruso

     Stilizza, anzitutto, un viaggio reale Finisterre di Orazio Caruso (Sampognaro & Pupi, Floridia, 2015, pp. 95, Eu. 10): un viaggio lungo e defatigante, com'è quello che compiono in corriera da Vicenza a Marzamemi prima Francesca (principale io-narrante) insieme con l'amica Martina e, poi, in Suv, da Milano ancora a Marzamemi, Tommaso (secondario io-narrante).
     Si tratta, in entrambi i casi, di viaggi alla ricerca di "qualcuno": Francesca, infatti, pianista d'un affermato quartetto di giovani musicisti, "scende" in quell'estremo lembo di Sicilia per incontrare il fratello maggiore Nino, che non vede da quattro anni, coinvolgendo nel viaggio la violoncellista del quartetto, Martina, a sua volta in crisi sentimentale e decisa a mettere la maggior distanza possibile fra lei e il fidanzato. Che, non rassegnandosi d'essere stato "mollato" con un sms, decide di raggiungere la Sicilia per cercarvi la sua donna e convincerla a ritornare con lui.
     Risulta intuitivo come questo tipo di viaggio assuma, nell'economia del romanzo, la funzione di "pretesto" perché la narrazioni si sviluppi: funzione, peraltro, qui arricchita dell'ulteriore funzione di margine di riflessione, per i singoli personaggi, e d'esame critico dei loro pensieri, dei loro ricordi, dei loro giudizi, dei loro fallimenti, delle loro nostalgie, dei loro sentimenti e risentimenti (Francesca, per esempio, è moglie separata di Riccardo, "un estraneo direttore di filiale digiuno di musica e di sentimenti", cui ha affidato la loro figlioletta per il periodo delle vacanze natalizie: per la durata del viaggio).
     A tale stregua, il viaggio che le "figurae" di Finisterre intraprendono poco o nulla ha a che vedere con io viaggio d'esperienza, con il nomadismo, per intenderci, degli esponenti della "beati generation", caratterizzato dalla partenza da un luogo per raggiungerne altri e, On the road, attraverso le occasioni e gli incontri connessi al vivere quotidiano o al capriccio del caso, assaporare la straordinaria avventura dell'esistenza. Poco o nulla esso ha a che vedere, altresì, con il viaggio di tipo turistico (nel quale, come osserva Nino, i soggetti interessati "prendono un aereo, dormono e si svegliano in un altro continente, non percorrono le distanze, le eliminano"), né con quello di tipo religioso che si compiva nell'antichità, in cui i pellegrini viaggiavano non per diporto, bensì per ragioni di ineludibile necessità, come per ineludibile necessità viaggiano gli odierni migranti (tipo di viaggio che sembra corrispondere all'idea che ne concepisce Nino: per gli antichi pellegrini, egli dice, andare al santuario "era questione di vita o di morte"; e rivela: "Allo stesso modo io intendo il viaggio").
     Quello rappresentato nel romanzo, infine, non è, per la generalità dei personaggi, un nòstos, un viaggio di ritorno alla Madre: una katàbasis, da parte dei nostri eroi, nel magma infuocato del proprio inferno, per una rivisitazione-riappropriazione delle personali radici.
     Non lo è per la pianista, che dichiara di aver "subìto", da bimba e da ragazza, i viaggi-nòstoi del padre a Marzamemi e di sentire la Sicilia come una terra a sé estranea ("Questa terra non è la mia terra"). Ancor meno lo è per la violoncellista, la quale accompagna l'amica soltanto per allontanarsi da un amori finito, e non lo è soprattutto per il fidanzato "scaricato", Tommaso, che se l'impone a malincuore come massacrante "sacrificio" per tentare di recuperare l'amore perduto.
     Sicuramente lo è stato, invece, per il padre dei due fratelli: bibliotecario a Vicenza, egli ogni anno ritornava a Marzamemi, il borgo di mare da dove era partito anni prima e dove, una volta arrivato, ridiventava siciliano a tutti gli effetti, riprendendo le antiche abitudini e persino l'uso del dialetto locale (quel ritorno del padre al paese, ogni estate, era anche, dal punto di vista di Francesca, "un rito di ringraziamento per quello che i suoi genitori avevano fatto per lui [l'averlo mantenuto agli studi]. E questo rito era continuato anche dopo che i nonni erano morti").
     Altrettanto sicuramente lo è, sebbene in modo confuso, pure per Nino: l'angelico e brillante ragazzo per cui si preannunciava un destino universitario o artistico; il geniale eterno adolescente, che voleva trovarsi là dove i fatti accadevano e accarezzava mille progetti per la sua vita senza mai realizzarne alcuno; l'ironico e scombiccherato giovanotto che frequentava assiduamente l'utopia, che riteneva che non potesse esservi salvezza se non comune, ma che s'era dovuto accontentare, per campare, d'un posto di maestro elementare supplente nel paese natale del padre, paese così per lui assurto a "finis terrae": ad emblematica "zona grigia tra ricchezza e povertà, Europa ed Africa, terra e acqua".
     Per uno come lui votato alla precarietà e come affetto da una "voluttà di fallire", il lavoro che svolgeva non rivestiva eccessiva importanza: importante era, piuttosto (come dubitativamente riflette la sorella), che egli avesse avvertito "il dovere di andare ad occupare quel posto lasciato vuoto da nostro padre": dall'uomo che, cercando altrove il lavoro e il radicamento della propria vita, era andato via da una terra "illusiva" e matrigna, benché sempre ne "avesse custodito, come una ferita, la nostalgia" e il sentimento di colpa per "non aver fatto abbastanza per modificarla".
     Da simile specola, il percorso tratteggiato in "Finisterre" si configura come viaggio di conoscenza: come movimento di indagine chiarificativa e di acquisizione gnoseologica, da parte di Francesca, dell'enigma-Nino, e, nel contempo, come processo di crescita e di maturazione di colui che quell'enigma incarna (il quale, in un lampo coscienziale, ammetterà: "Sto solo imparando a crescere, Francesca"). Alla fine del viaggio, infatti, la pianista avrà un quadro un po' più completo della personalità sfuggente del fratello; mentre Nino, riappacificandosi con Tommaso, l'amico d'un tempo venuto in Sicilia per riallacciare il suo legame con la fidanzata e fortunosamente ritrovato, annuncia a Francesca che sta di nuovo per partire, stavolta per l'Africa, dove lavorerà alla realizzazione, nel Sahel, di un progetto di antidesertificazione del territorio.
     Romanzo complesso, pertanto, questo Finisterre; romanzo in cui, sul racconto dell'incrocio dei destini di quattro giovani nel punto di snodo delle loro esistenze, s'innestano spunti problematici di scottante attualità: i fermenti e le inquietudini che angosciano il mondo giovanile; il rischio dell'interruzione della comunicazione e della perdita di contatto con l'altro; i disastrosi effetti della globalizzazione, che accentuano la marginalizzazione degli individui, specie di quelli appartenenti alle classi più deboli, ed esasperano gli squilibri socio-economici; la difficoltà del singolo a conservare la coerenza nel perseguimento dei propri ideali; l'esplosiva situazione dell'Africa, avvertita come "enorme senso di colpa per l'Occidente", e il connesso esodo biblico dei "migranti" verso l'opulenta Europa ecc.
     Sono materiali, comunque, che, lungi dall'appesantire la "storia" narrata, la integrano in un impasto compatto e unitario. Merito non piccolo né trascurabile dell'autore, che ha saputo esemplarmente organizzare la congerie dei motivi che gli urgevano dentro, avvalendosi, tra l'altro, di una scrittura snella, analogica, incalzante, ricca sì di richiami letterari, antropologico-culturali e di linfe del pensiero, ma anche decisa nella vis rappresentativa dei luoghi, dei caratteri, e densa di echi musicali e d'abbaglianti lucori lirici ("La notte di Natale, si andava annunciando col primo carico di stelle").

                                                                 Franco Pappalardo La Rosa