venerdì 5 dicembre 2014

NOTTE DI NATALE


            In fondo al catòio lo vide,
            attaccato al seno della mamma
            -- bénie vous êtes entre toutes
            les femmes! --: dormiva, forse sognava
            al tepore d'un fuoco ormai stento.
            Respirava lento il somarello
            per non destarlo; e il bue, di tanto
            in tanto, indolente gli scalciava accanto.
            Fuori, la gente a frotte accorreva
            da paesi e città; traversava silente
            il gelo della notte ad incontrare
            l'ossimoro degli ossimori: l'Abbagliante
            Oscurità. Con sé in dono recava
            ogni cosa: uova di tortora, galline
            chiacchierine, ricolme fascine di ricotta,
            panàri con frappe di sorbe non lappe,
            racìna inzòlia, lumìe, arance tarocche
            e sanguinelle, mandarini zuccherini,
            bergamotti aulenti, torroni fondenti
            di nocciole e miele, mostaccioli, tortelle
            di gelsomini, cannoli alla crema
            di banane con pistacchi di Bronte,
            dolcini di mandorle in marzapane...

            C'erano pure i pastori lì intorno:
            lontani da stazi e covili, a giubilo
            ciaramelle suonavano e maranzani
            e pifferi puerili, nella notte rastremata
            nello zero del tempo, incantata, in cui
            d'un tratto il Verbo carne s'è fatto
            e fra noi è venuto ad abitare, ossimoro
            degli ossimori: Abbagliante Oscurità.
            Una notte trapunta davvero da miliardi
            di spìngole d'oro come da secoli
            non si vedeva sopra i tetti della grande
            città. Più bassa, l'Halley a perpendicolo
            s'era impuntata con la sua coda
            diamantata ad ascoltare la serenata
            che al Bimbo intonava la più autentica
            umanità ("Beati i poveri in spirito...).
            In Lui è la vita, luce degli uomini:
            e la luce risplende fra le tenebre,
            ma le tenebre non l'hanno ricevuta
            (ad attestare che il male sempre è
            a se stesso uguale, dopo due millenni,
            nel salotto del castello di St. Gallen,
            davanti a un bicchiere di Porto,
            il filantropo Stephan Schmidheiny
            e il barone Louis de Cartier de Marchienne
            a scacchi si giocavano il destino disperato,
            mancino, d'una folla di uomini e donne
            di Casale Monferrato).
         
           Da AA.VV., L'OMBRA DELLA STELLA, Il Natale dei poeti d'oggi, Interlinea, Novara 2012.

Recensione (apparsa su L'Indice dei libri del mese, A.XXIV, n. 10, 2007, p. 19) a Storia di un corpo ( Manni, Lecce 2007) di Pier Mario Giovannone


     Di tre segmentati poemetti, che per argomento hanno il corpo, si compone questo libretto di versi di Pier Mario Giovannone: il corpo poeticamente indagato e rappresentato non solo come oggettivo riferimento della percezione identitaria ("spazio fisico e metafisico / del nostro vissuto"), bensì anche quale alterità con cui l'io debba misurarsi a ogni istante della propria esperienza vitale, per riconoscersi, per accettarsi e (junghianamente) individuarsi.
     Il corpo stilizzato nei versi non è, tuttavia, un mero luogo, uno sfondo; costituisce, piuttosto, un'occasione: lo stesso elemento scatenante della poesia. Focalizzi, infatti, il centro della continua perdita di sé, o si ponga alla stregua di enigmatica, antagonistica entità nello sdoppiamento, talora sino e oltre la soglia dell'alienazione, tra l'io conscio e la sua proiezione materiale, esso mai dismette la propria funzione di oggetto poetico teso a "comunicare", nel bagliore e nello scatto ellittico della parola, nella svagata trasparenza della frase antilirica, una transazione di senso verso le radicali unità di pensiero e stupore, di testo e immagine, di presenza e confronto tragico con la frontiera del nulla. Da tale specola, il corpo poetico rifiuta, nel reticolo versificatorio, d'atteggiarsi a simbolo. Poiché, per Giovannone, la vita non può essere trattenuta in un segno immobile, ma è sempre altrove. E' nel rapimento, nella fugacità, nella sensazione transeunte dell'effimero: nell'eco dell'invano (come attesta lo sconsolato bilancio in secca perdita del poemetto conclusivo).
     A contrastare la grevità insita all'idea di corpo, a deponderarla quasi, il poeta si avvale, in ogni caso, di un denso nominalismo e di uno stile fortemente accumulatorio dei nomina impiegati. Che, senza smarrire il loro esatto riferimento ai sottostanti rapporti oggettivi e coinvolti in cadenze metrico-ritmiche svariate e briose -- dal "cantabile" delle sfilze di senari-settenari e otto-novenari all'andamento litanioso-responsoriale, per esempio, di Per solista e responsorio --, coniugano le forme del linguaggio in un'espressione scorrevole, elegante, costantemente gnomica. Con un lieve effetto di giocoleria concettuale e verbale, connesso all'iterata e irregolare presenza delle rime ("corpo senz'anca / che claudica e arranca"; "corpo come prodotto / lato elevato al quadrato // alzato / bugnato"), degli accordi omofonici ("punti di appoggio alle sue fughe / ai suoi ritorni / alle sue stasi / basi / dei suoi balzi"), degli scarti sonori dei lapsus ("odora il padre e la madre"), del mélange degli identici gruppi sillabici (della loro inversione, anche, nello stesso periodo versico: "corpo puro corpo porco") e delle insistite riprese anaforiche ("corpo in affitto / corpo che cade a capofitto / corpo con fitte / corpo senza affetti / corpo da rigetto"). Il tutto passato al filtro di un'ilare, irridente-amara ironia, che agisce da generale attenuazione litotica.
                                   
                                                                       Franco Pappalardo La Rosa